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Bertarelli: Alinghi non ci sarà alla prossima America’s Cup

Bertarelli America's Cup

Intervista al patron di Alinghi:

“Ci sono solo quattro team iscritti finora: vorrà dire pur qualcosa”. “Le barche della prossima edizione? Catamarani travestiti da monoscafi. Dovevano tenere gli Ac50 e svilupparli: avrebbero avuto subito 6 team, noi tra quelli”. Quella volta che lo chiamò Coutts.

«Sai, alla fine quello che conta è la pacca sulla spalla da uno di questi campioni, che hanno vent’anni meno di te, e che ti dicono “Well done, mate!”. E’ il rispetto del velista». Ernesto Bertarelli, mister Alinghi, è rilassato, sorridente. Ha appena vinto il titolo di armatore-timoniere nell’apposita classifica del GC32 World Championship, i Mondiali di questa classe di catamarani volanti, tenutosi a Riva del Garda, prima tappa del circuito, che ha corso come sempre con i colori di Alinghi. E quando comincia a parlare di vela, capisci che gli fa piacere. Che è passione.

Bertarelli, pensa ancora che i catamarani volanti siano il futuro?

«Sì, ne sono convinto. Stare al timone di una barca come il GC32 è un’emozione grande, corri a 35 nodi. Al timone la tensione è altissima, è come guidare una Ferrari. E questa è solo la prima genertazione. Insieme ad altri armatori che regatano sul lago di Ginevra abbiamo deciso di costruire un catamarano di 35 piedi con i foiling a T e un sistema elettronico di direzione del volo assistita: sarà pazzesco. Siamo solo all’inizio, le potenzialità di sviluppo sono enormi».

C’è chi rimpiange le barche di una volta, il monoscafo con lo spinnaker.

«E’ come se a uno dai una Ducati 650 e poi gli dici: “Perchè non ti prendi una Harley”? Io ho una Harley Davidson, cromata, romantica. Ogni tanto faccio salire dietro mia moglie e andiamo a fare un giro in campagna. Ma se voglio correre in circuito prendo la Ducati».

Non si può tornare indietro.

«Basta chiedere ai giovani velisti che barche vogliono. Già a 12 anni vorrebbero salire sui catamarani volanti come i Moth e poi i Nacra 15».

E le barche della prossima Coppa America, che ne pensa?

«Sono catamarani travestiti da monoscafi. Saranno barche più lente di quelle che avremmo potuto avere mantenendo e sviluppando i catamarani che avevamo visto nell’ultima edizione di Bermuda , probabilmente meno governabili e sicure, perchè hanno tolto il secondo timone. Questo veramente non lo capisco: perché cambiare barca ad ogni edizione della Coppa? Oltretutto, i “monomarani” saranno anche più costosi».

Be’, la Coppa America non dev’essere per forza low cost. 

«Sì, ma quando ti trovi con quattro team, tanti sono iscritti finora alla prossima Coppa (Team New Zealand, Luna Rossa, Usa, UK), ti devi domandare qualcosa. Rischi che succeda come è accaduto a me sul lago: ho fatto un catamarano pazzesco, Alinghi 41 Le Black, ho vinto tutto per due anni e poi mi sono girato e mi sono trovato a correre da solo. Allora con gli altri armatori abbiamo fatto il D35 e da quindici anni ci divertiamo come matti. Dai, ormai la Coppa è un gioco per architetti e ingegneri, con i velisti in secondo piano. E con il rischio di investire una somma enorme in una barca sbagliata altissimo».

Perché, nella Coppa America vinta nel 2003 e difesa nel 2007 da Alinghi, a bordo del quale lei era navigatore, non era così?

«Noi abbiamo vinto con la barca numero 64 la prima volta, con la 100 la seconda. Vuol dire che erano state fatte 100 barche di quella classe. Uno si vedeva la Coppa precedente e aveva una direzione da seguire. Si spendeva magari la stessa cifra per sviluppare il progetto, ma con meno rischio di sbagliarlo. Prendiamo gli inglesi di Ben Ainslie, nell’ultima Coppa: il miglior velista del mondo, ma aveva sbagliato barca. Game over».

Se non avessero cambiato barca lei avrebbe corso la prossima Coppa?

«Sì, avrei partecipato. La Svizzera ora per altro ha anche i velisti per poterla fare senza problemi di regole di nazionalità. Cambiando barca hanno perso almeno due team, uno è Alinghi (l’altro, gli svedesi di Artemis, nda). Ne avrebbero avuti sei fin dall’inizio. E sarebbe stato facile salire a otto. Speravo in una scintilla di ravvedimento, ma niente, sono andati avanti per la loro strada. Oltretutto voglio anche fare i pezzi più importanti della barca uguali per tutti: ma come fai? Voglio vedere quale giudice dirà che sono tutti uguali. Perdi mezzo secondo in virata e parte subito una causa legale…. Io non voglio ricevere un pezzo fondamentale dall’organizzatore. E’ come se in Formula 1 tutti i team avessero lo stesso motore».

A Bermuda sembrava che lei potesse addirittura essere il Challenger of record, il rappresentante degli sfidanti, alla prossima Coppa.

«Noo. Era già stato deciso molto prima che iniziasse che sarebbe stato Patrizio Bertelli con Luna Rossa. Quando ha promesso a New Zealand i materiali c’era già l’accordo».

Torniamo indietro nel tempo. Non pensa mai all’America’s Cup che sarebbe stata se dopo il 2007 non fosse finita nelle aule dei tribunali? Avrebbe continuato?

«Purtroppo ho fatto alcuni errori. Ma certo, sarei andato avanti. Una settimana dopo la fine dell’edizione 2007 avevamo già annunciato la barca e la cadenza biennale dell’evento e c’erano già gli sponsor, che sono andati persi».

Erano anche altri tempi. E poi, l’avevano anche accusata di fare una Coppa troppo commerciale, ricorda?

«Avevamo almeno dieci team che al minimo avevano 30 milioni di euro da spendere. Il successo di Valencia era stato così grande che tutte le squadre avevano gli sponsor per riparire. C’erano 250 milioni di euro della città di Valencia. Io come Alinghi ero completamente finanziato, i kiwi e gli inglesi penso anche. Ci siamo fermati e ora siamo tornati a una Coppa che forse a certi piace in cui bisogna avere il Paperone che paga tutto. Questa non era la mia visione».

E’ stato anche lei un Paperone dell’America’s Cup.

«Sì, è vero. Ma una volta vinto, ho cercato di costruire una Coppa che si pagasse da sola. Volevo che la vela diventasse uno sport come il calcio, la Formula uno. Per non rischiare appunto di trovarti in quattro team, come fosse una regata davanti a casa. Il circuito dei GC32, ad esempio, è bello anche perché ci sono tredici squadre… Fa gioco, atmosfera, belle immagini».

Le dispiace non essere in Coppa, dica la verità.

«Sono un appassionato di vela, se fosse un gioco più equilibrato… Però, francamente oggi mi diverto molto con i GC32, senza i problemi che la Coppa comporta e senza spendere somme enormi».

Si parla anche di un circuito antagonista alla Coppa America, con le barche di Bermuda, gli Ac50, che sta organizzando Russell Coutts. Che ne pensa?

«Mi sembra che ci sia solo lui con Larry Ellisson (Mr. Oracle). Tutte le barche sono loro. Io lo avevo già fatto nel 1999, con i Maxi One Design: otto scafi, tutti miei. L’idea era di fare la Volvo Ocean Race, ma l’allora ceo della regata Knut Frostad non volle… Ho fatto un circuito, è durato un anno, pagavo tutto io, alla fine ti stanchi… No, un sistema che abbia un solo proprietario che mette a disposizione le barche, e che corre pure lui, è difficile che funzioni».

Ma perché lo fa Coutts: per dispetto?

«Non lo so…».

Si dice che abbia a bordo anche Louis Vuitton.

«Ecco, un’altra cosa che non capisco. Ma non potevano mettersi d’accordo per la prossima Coppa? E’ un marchio legato alla staoria dell’evento. Penso che Prada e Lv, potevano andare bene assieme, entrambi nel settore del lusso…».

Ne starà fuori, ma l’America’s Cup 2021 la seguirà comunque?

«Certo, come sempre».

Dica la verità: la malattia della Coppa le è rimasta nel sangue.

«Sono un appassionato di vela, è questa la verità. Io l’ho vinta la Coppa, l’ho vissuta per dieci anni forse nel suo periodo migliore, probabilmente la prossima Coppa non sarei stato in barca, il mio tempo l’ho fatto. A me spiace soprattutto per la nuova generazione di velisti che non vivrà più quella America’s Cup. C’erano tanti team, si viveva un’atmosfera bellissima. Anche i team meno forti facevano parte della comunità, sognavano magari di battere una volta Alinghi… Ora i velisti della Coppa sono sempre gli stessi, è un circuito chiuso».

Molti sono adesso sui Tp52 per allenarsi.

«Ma che serve allenarsi su un monoscafo tradizionale per andare poi a correre su una barca volante? Perchè allora non vengono qui, sui GC32? Deve volare o no la prossima barca? Oltretutto questo circuito è molto meno costoso del Tp52».

Lei si diverte sui GC32, vero?

«Sì, molto. Qui ci sono velisti che si allenano 320 giorni l’anno. Io riesco a farlo giusto per un mese, regate comprese».

Lei nel 2003 e 2007 ha dedicato molto tempo alla Coppa?

«La prima volta riuscivo a dedicarmi anche agli affari. Diciamo dedicavo alla Coppa un terzo del mio tempo. Quell’evento coincideva anche con una vita privata semplice, mi ero appena sposato, la mia prima figlia aveva due anni, la società andava benissimo, i nostri prodotti erano lanciati. La seconda volta invece è stato un po’ più complicato: organizzare e difendere il trofeo è stata una grande responsabilità».

Ma perché aveva scelto di partecipare alla Coppa?

«Ero andato nel 2000 ad Auckland, quando Luna Rossa ha perso contro New Zealand, perchè avevo capito che i Maxi One Design non funzionavano. Volevo schiarmi le idee, insieme a Michel Bonefus, l’amico che mi aveva aiutato con i Maxi. Ero rimasto sorpreso dell’accoglienza: Peter Blake, Bertelli che mi aveva invitato a prendere un caffè… Insomma, molte porte si erano aperte, mi avevano fatto vedere le barche, il team del New York Yacht Club che mi voleva vendere la barca perchè aveva fatto una campagna disastrosa… Ho visto le prime regate, mi sono divertito, sono tornato a casa, al lavoro. E due e tre mesi dopo Coutts mi ha chiamato. Io non lo avevo conosciuto, non gli avevo stretto la mano. Mi disse che se ne voleva andare, che voleva fare un team in Europa, che stava parlando con diverse persone. Parlò con Bertelli, così come fece quando se ne andò da Alinghi e poi andò con Oracle. Contratti inaccettabili, solo Ellison poteva…».

E’ andata come è andata. Rammarico?

“No, non guardo mai al passato, penso sempre al domani. Pur troppo, perché a volte dovrei guardare indietro, perché poi i ricordi sfuggono. Forse ho poca memoria… E’ che io non volevo essere solo un passeggero della Coppa, volevo andare anche in barca, mi piaceva essere nel team, coinvolto…».

Parla di rispetto dei velisti professionisti del GC32. Può spiegare?

«Significa farsi accettare come velista da gente che ha vent’anni meno di te, riuscire a creare un rapporto di rispetto…».

Be’, lei è l’armatore, il rispetto non può mancare…

«Il rispetto in una competizione da parte dei professionisti non è la stessa cosa. Se non sei in classifica davanti a gente come Draper, Minoprio, Cammas non ti vengono a darti la pacca sulla spalla e dirti “Well done, mate”, ben fatto amico. Ed è questo che conta».

Ultima domanda: e le regate oceaniche? Le piacciono? Sembra oltretutto che la Volvo Ocean Race sia in vendita…

«Io sono nato a Roma e ho sempre freddo. Non potrei immaginare di andare in barca a sud di Roma. A me piace il sole…».

Fonte: La Stampa

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