Mangiare a bordo – Il Capitano di Vascello Alessandro Pini che, con la sua vasta esperienza di commissario nella marina militare, ha ideato l’evento “Menu storici della Regia Marina”, in occasione del quale racconta la storia, le tradizioni e gli aneddoti legati al rancio a bordo delle navi nella storia.
La parola “rancio” ha, in sé, una storia particolare e dubbia ne è l’etimologia: sembra derivi dal francese “se rangér” o dallo spagnolo “rancharse”, termini che indicano entrambi il riunirsi insieme di un gruppo di marinai per consumare il pasto.
La storia dei pasti di bordo è affascinante: abbiamo il grande Pigafetta, cronista dei viaggi di Magellano, che racconta di episodi in cui l’equipaggio, esaurita ogni scorta di cibo, era costretto a “cibarsi” dei legacci di cuoio delle vele e in cui i topi morti erano una ghiottoneria…
Comunque, orrori dietetici a parte, se leggiamo una lista di “bordo” del 3000 a.C. la troviamo curiosamente gustosa e persino i nostri ‘delicati’ palati moderni apprezzerebbero. Vi si trova infatti: pesce, carne di montone, formaggio di capra, pane e focaccia, miele, verdure, datteri, fichi e melograni, olio di oliva (o di noce), vino di datteri, e persino birra! Certamente solo uno dei molti aneddoti su cosa bevevano i marinai…..
E che dire degli egiziani? Certo questo straordinario popolo è impresso nelle nostri menti per le assurdamente enormi ma nondimeno affascinanti piramidi ma ricordiamo che furono anche i primi ad avere una flotta vera e propria. Le città portuali, anche non egiziane, dovevano rifornire le navi di passaggio. Nel Papiro di Harris (datato XIII sec. a.C.) si parla di focacce (“rehes”) e carne secca oltre che di ben trenta tipi diversi di pane. Gli egiziani si erano posti anche il problema della conservazione del cibo e nel Bassorilievo di Beni Hasan (fine del II millennio a.C.) si trova descritto l’uso di salare i pesci prima della consegna a bordo, il che ne consentiva una migliore conservazione.
Anche nella storia greca troviamo testimonianze interessanti: il poeta Archestrato di Gela (circa 330 a.C.), nell’“Hedypatheia” (Poema del buongustaio) racconta i suoi lunghi viaggi alla ricerca delle migliori prelibatezze e parla del pane, dei pesci, della selvaggina, della produzione e della conservazione del vino. Critica i cuochi siracusani che “imbrattano” il pesce con “untumi e caci vari” e raccomanda di condirli solo con sale, olio e qualche erbetta odorosa. Indica, inoltre, le specie più rinomate di pesce, come le anguille dello Stretto, le orate di Selinunte, i tonni e il pescespada di Tindari. Si usavano anche diverse tecniche per coltivare le piante a bordo.
Arriviamo poi ai romani che solo verso il 338 a.C. cominciarono ad avere una flotta stabile. Una flotta la cui forza motrice erano gli schiavi rematori. Questi poveretti erano legati alle panche e costretti a remare fino allo sfinimento e per farlo avevano bisogno di cibo. Quindi anche sulle navi romane si pone il problema del cibo. Avevano per lo più pesce sotto sale ed il famigerato garum, quella salsa fatta di interiora di pesce lasciate macerare per mesi che i romani amavano così tanto e con cui condivano ogni tipo di pietanza. Ma a bordo non mancavano formaggi, la gustosa “maza” (una zuppa di farina, acqua, olio o vino, sale, miele) e il “moretum” (farina, formaggio, aglio, ruta, aceto, olio e uova) molto diffusa era, inoltre, la “dura” un pane duro, quasi biscottato. Si trovava anche il vino, conservato con spezie e resine, una bevanda ancora presente nell’odierna Grecia: la retsìna. Vi sono anche testimonianze di navi in cui si mangiavano ostriche (provenienti dalla Britannia) che venivano conservate con neve pressata.
A proposito di vino, curioso sapere che i romani sono stati anche i primi ‘creatori’ dei vini DOC; infatti sui tappi delle anfore veniva impresso il marchio di spedizione, il tipo di merce e la provenienza. Esisteva poi la figura del “Praefectus classis” colui che era responsabile dei rifornimenti, costruzioni e armamento; c’erano persino delle ditte private che organizzavano dei ‘symposia’ sulle navi, antesignani dei nostri moderni catering. Un ultima curiosità su questi nostri antenati: i comandanti delle navi avevano dei veri e propri elenchi con le ‘stationes’ più adatte dove rifornirsi di cibo: come se avessero una sorta di Guida Michelin dell’antica Roma!
I vichinghi avevano navi di legno con scafi bassi, che permettevano di navigare nei mari in tempesta e nelle basse acque fluviali. Anche questi feroci marinai dovevano mangiare e a bordo delle loro navi si trovava un po’ di tutto. Non mancavano vari tipi di pane che, come abbiamo visto, era una costante: pane con mele, farina e pepe per i viandanti d’inverno; con latte, burro, uova e zenzero, per gli ammalati; biscottato, per i naviganti e gli assediati. I biondi marinai non si facevano mancare le proteine e a bordo si potevano gustare vari tipi di pesce (affumicato, salato o conservato nella neve), carni affumicate e focacce con legumi.
Arriviamo quindi al Medioevo. Va però ricordato che nell’antichità si navigava da aprile a ottobre e d’inverno il mare era considerato “clausum”, chiuso. Troppe erano le difficoltà: condizioni meteo avverse, difficoltà di approvvigionamento e conservazione delle derrate, fragilità degli scafi. Ma la cosiddetta rivoluzione nautica cambia l’organizzazione di bordo e permette di navigare tutto l’anno. Quali sono le novità? Innanzitutto, l’introduzione a bordo della bussola, che permise la navigazione a prescindere dalla visibilità del cielo; l’evoluzione della matematica che, applicata ai viaggi in mare, consentì calcoli di rotta fino ad allora impensabili e una migliore, generale, manovrabilità delle navi.
Nelle navi medioevali, inoltre, migliora leggermente la qualità dei pasti a bordo. Pur continuando a mangiare senza posate (come, del resto, accadeva a terra), sono presenti a bordo molti utensili che arricchiscono le potenzialità delle cucine: calderoni in rame, padelle, casseruole, spiedi, schiumarole, mortai, pestelli, macine e forni in rame per panificare. Si mangiano biscotti, zuppe, carne e lardo, formaggi, sardine, olio e si beve vino, anche se i viaggiatori dell’epoca consumavano una quantità di carboidrati doppia rispetto a quella delle proteine e assumevano poche vitamine e sali minerali.
Dal buio Medioevo possiamo passare, a quello che è forse uno dei periodi migliori dal punto di vista ‘marinaro’: le Repubbliche Marinare, appunto.
Le Repubbliche Marinare: prima tra queste che, con Pisa, si spinge oltre le Colonne d’Ercole, così temute dai marinai di Ulisse, è Genova. Nasce in questo periodo la figura del ‘fornitore navale’ e abbiamo documenti, datati 1338, nei quali si dichiara che il proprietario della nave deve garantire ad ogni singolo membro dell’equipaggio almeno 800g di biscotto al giorno (non avevano paura dei carboidrati, all’epoca!). Sulle navi si servono brodo di pesce, zuppe, cappon magro, capponata (galletta, acciughe salate, mosciame, olive, olio e sale) e la “mesciua” (ceci, fagioli, granfano). Non mancano le curiosità: scopriamo che a bordo veniva servita una pasta condita con erbe e formaggio e frutta secca, condimento che potremmo ipotizzare essere un antenato del conosciutissimo pesto. Ci sono poi i fornitori del biscotto, che sono tenuti a giurare di fornire un biscotto “bonus et idoneus” e chi non si attiene subisce severe punizioni, segno inequivocabile di quanto il biscotto e il rancio venissero presi sul serio. C’è, però, una distribuzione “gerarchica” del cibo: il capitano e gli ufficiali ne ricevono dosi a volte eccessive e, spesso, lo rivendono sottobanco agli affamati membri dell’equipaggio.
Un’altra, importantissima, Repubblica Marinara è, ovviamente, Venezia, la “Serenissima”: una città le cui sorti dipendevano dai marinai. L’Arsenale occupava 26 ettari, aveva 3.000 operai e produceva 100 galee in un mese e mezzo (circa 2 al giorno). Le esigenze di chi navigava erano importanti: si era creato persino il “provveditore del biscotto”, colui che curava la produzione delle gallette. Venivano emanate le prime leggi: in una datata 1282, il Senato nomina i funzionari preposti al controllo dell’applicazione delle leggi (il vitto e l’equivalente in denaro spettanti ai marinai delle navi mercantili sono detti “panatica”). I marinai però sono responsabili delle proprie provviste e portano a bordo il proprio cibo, acqua e vino.
Una curiosità: il cibo a bordo, si sa, deve durare e in questo erano maestri i panettieri dell’epoca, al punto che a Candia, nel 1821, sono stati trovati dei biscotti, perfettamente conservati, risalenti al 1669! Certo, probabilmente il sapore non sarà stato il massimo, ma la loro tenuta è ‘storicamente’ accertata!
Dai documenti ritrovati, scopriamo che per 4 mesi di mare si calcolavano 500 kg di acqua pro-capite, gallette, maiale salato, fave, formaggio, vino (il tutto per un apporto calorico giornaliero di 3.915 Kcal, delle quali 14,4% da proteine, 14,3% da grassi, 71,3% da carboidrati).
Anche per Venezia, quindi, il rancio era una cosa seria: esisteva un rigido controllo dei forni, con perizie in tribunale e tracciabilità dei prodotti. E severe erano le punizioni: se il biscotto risultava alterato durante la lavorazione, il “pistor” (panettiere, in dialetto veneto) veniva spedito per 5 anni sulle galee o – se il fisico non lo consentiva – scontava 10 anni di carcere duro per “attentato alla salute pubblica”. Inoltre, i forni che producevano biscotto, dovevano lavorare esclusivamente per Venezia, pena una multa salata, la privazione dell’incarico a vita e il bando da Venezia per 10 anni.
Le caravelle di Colombo
Poco più di due mesi in viaggio con novanta marinai. Dai documenti di viaggio, sappiamo che ci si lamentava delle precarie condizioni igieniche a bordo e che, pur essendoci un medico, gli interventi chirurgici erano eseguiti dal barbiere (forse per la sapienza nell’usare le… lame!). A bordo non si lesinava sul vino: 3 mestoli al mattino e 3 alla sera di vino rosso (si parla di oltre un litro al giorno!) e sulle gallette, che venivano concesse in razione doppia la domenica. Il martedì, giovedì e domenica si mangiava carne essiccata (cervo o vacca); il lunedì, mercoledì, venerdì e sabato zuppa calda (ceci, fave, lenticchie, con olio, aceto, cipolle e moltissimo aglio in funzione antiscorbuto. La cena consisteva per lo più in formaggio, lardo, pesce salato, con rucola, senape e aglio). La domenica ci si addolciva e venivano serviti anche uva passa, mandorle, fichi secchi e miele.
Colombo aveva le sue preferenze e scopriamo che a bordo, esclusivamente per lui, erano stati imbarcati cedri canditi, conserve varie, datteri, cotognata, zucchero rosato e bianco, aranciata, acqua di rose, zafferano, riso, uva passa, mandorle, miele, aceto, olive, burro fresco di maiale, prosciutto, galline e galli vivi (si vede che voleva esser certo della freschezza delle portate!). Un capitano, Colombo, che sapeva come gestire gli umori a bordo e che nei momenti difficili mangiava sul ponte con i suoi marinai, lasciando per l’occasione il suo usuale posto in cabina con gli ufficiali.
Un altro grande navigatore è stato il portoghese Magellano, colui che intraprese la prima circumnavigazione del globo al servizio della corona spagnola di Carlo V. Nel 1521, per la sua ciurma di 265 uomini di varie nazionalità (tra cui 24 italiani), aveva fatto caricare nei cinque velieri 21.000 libbre di gallette (circa 8.400 kg), 6.000 libbre di carne fresca (2.400 kg), 984 forme di cacio, 200 botti di sardine, vino, farina, riso, legumi, 7 vacche (la cui sorte possiamo solo immaginare….).
Più avanti James Cook, l’esploratore, navigatore e cartografo britannico, che è più conosciuto per le soluzioni da lui escogitate ai problemi di alimentazione a bordo che non per le sue tre circumnavigazioni del globo. Nel 1769, Cook organizza una crociera scientifica nei mari del Sud, su incarico della Royal Society e porta con sé degli scienziati, tra cui il medico John Pringle, che introdusse l’uso dei crauti quali antiscorbutici (sul modello dei vichinghi), salvando molti marinai da atroci sofferenze. All’equipaggio della “Resolution” veniva dato estratto di malto, cavoli salati, mostarda, marmellata di carote, sciroppo di limone e arance, mosto di birra e le tavolette “portable broth”, che precorrono l’estratto di carne del barone tedesco Justus von Liebig, che diverrà i dadi da brodo conosciuti in tutte le nostre cucine. Sulle sue navi si beveva l’acqua (non più salata) degli iceberg e si mangiava la carne dei pinguini.
Tre grandi navigatori, che con i loro equipaggi hanno permesso alla conoscenza umana di espandersi e alla fantasia di tutti noi di volare oltre il conosciuto.
Andiamo ora a scoprire cosa mangiava l’equipaggio ai tempi di Nelson e Napoleone. I due grandi si fronteggiarono nella battaglia navale di Trafalgar nel 1805, che vide il trionfo dell’Ammiraglio inglese che però morì a causa delle ferite riportate durante la battaglia.
L’università di Oxford ha condotto una analisi degli isotopi del collagene contenuto nelle ossa dei marinai, e questo ha permesso di ricostruire l’alimentazione dei suoi marinai che era per lo più composta da carne essiccata di maiale, merluzzo sotto sale, gallette, formaggio e, immancabile in un contesto anglosassone, la birra.
Si sa gli inglesi, fino ad oggi, non hanno mai brillato per la cucina quindi pasti semplici e sostanziosi per i marinai della Royal Navy. Diverse le cose dall’altra parte della Manica (o English Channel come lo chiamano gli inglesi). Con la flotta napoleonica assistiamo ad una svolta nel sistema delle provviste di bordo e nasce la logistica moderna.
Aiuta molto una scoperta eccezionale: nel 1809 il pasticciere Nicolas Appert scopre la conservazione ermetica dei cibi e nel 1810 pubblica “L’Art de conserver les substances animales et végétales” (primo ricettario sul moderno metodo per la conservazione dei cibi). La “Casa di Appert” diviene la prima fabbrica di lattine al mondo, cento anni prima che Pasteur dimostrasse che il calore era in grado di uccidere i batteri. Una piccola rivoluzione che permette, anche a bordo, di conservare meglio i cibi.
Nel 1810 il contratto quadriennale di fornitura dei viveri alla marina francese, prevede razioni diverse a seconda dei lavori. Abbiamo quindi razioni giornaliere, di campagna, di mozzo, di truppa, di prigioniero di guerra, di guardaciurme, di forzato al lavoro, di forzato senza lavoro e di forzato invalido.
A bordo di quelle navi c’era un eccessiva presenza di carboidrati (per lo più pan fresco, biscotti e riso), 8 once di carne fresca cruda a testa e baccalà o stoccafisso. Ad accompagnare i pasti ben 232 cl di vino a testa (razione non data, però, ai mozzi).
A guardarle bene però le diete delle due ciurme, quella inglese e quella francese, non differivano poi così tanto…unica differenza era il tipo di alcool consumato, birra per gli uni, vino per i più ‘sofisticati’ francesi. Chissà se fu proprio questa differenze a decretare la vittoria di una ciurma sull’altra!
Veleggiamo dentro il XIX secolo che vide l’espandersi delle grandi compagnie di navigazione mentre la vita di bordo cambia: le cucine sono nuove, non più alimentate con il pericolosissimo fuoco a legna che rischiava di far bruciare tutta la nave! Vengono installati dei distillatori per acqua dolce, un sistema di ventilazione per arieggiare i locali più interni delle navi e il frigorifero che permette una conservazione più duratura anche dei cibi più reperibili.
E’ in questo periodo che il biscotto, simbolo e elemento base del rancio delle marinerie di tutto il mondo per secoli, vede la sua stella cadere e diventa mera scorta di emergenza.
Abbiamo un documento italiano risalente al 1866 che contiene una tabella di composizione viveri del marinaio a terra e a bordo. Le cene sono molto semplici: pane e formaggio. Più attenzione viene dedicata ai pranzi che sono rigorosamente scanditi: domenica: pasta asciutta; carne in ragoût; lunedì: riso in brodo con verdura; carne a lesso; martedì: pasta asciutta; carne accomodata; mercoledì: pasta al brodo con verdura; carne a lesso; giovedì: risotto; carne a stufato; venerdì: minestrone di pasta col pesto; sabato: riso in brodo; carne a lesso.
I marinai mangiano su tavole e panche con tovaglie di cotonina e nel 1900 al corredo di ogni marinaio si aggiunge un nuovo elemento: il piatto. Non che prima non li usassero ma ora il possesso diventa personale e parte imprescindibile della loro tenuta.
Abbiamo detto che esistevano i frigoriferi: i primi vengono stabiliti sulle navi della Marina italiana nel 1904 ma si continuò ad avere a bordo la così detta ‘carne in piedi’ (animali vivi) che avevano delle apposite stalle. Nel 1923 sulla navi della Regia Marina venne poi istituita la “prova del rancio”. Il Comandante in seconda o l’Ufficiale d’Ispezione, assaggia il pasto dell’equipaggio: può sembrare un evento banale, ma racchiude in sé una serie di connotazioni che non lo sono. Con questo gesto, infatti, il comando di bordo vuole “condividere”, nel pieno senso della parola, la vita dell’equipaggio e sottolineare l’importanza della “commensalità”: a bordo, infatti, tutti mangiano lo stesso cibo.